Nelle due precedenti puntate della top 25 degli shock culturali ci siamo divertiti e un po’ scandalizzati nel toccare con mano cosa significa, nell’epoca del turismo globalizzato, la collisione tra usi e costumi dei diversi popoli contro i nostri. Ora ritorniamo più seri con qualche riga di analisi e proposte conclusive.
E’ ovvio che alla base di questi discorsi ci sono appunto gli stereotipi che ci sono stati affibbiati, ma d’altronde sono normali e noi per primi li buttiamo addosso al resto del mondo: vogliamo parlare del binomio tedeschi/sandalo e calzino bianco? Oppure francesi/bidet? Potremmo continuare a lungo su quelli che vengono applicati agli italiani, primo tra tutti la mafia, che all’estero è visto come un fenomeno di costume in chiave cinematografica e non si rendono conto di quanto da noi invece sia la più grande piaga nazionale.
D’altronde bisogna anche riflettere su un fatto, molto della cultura italiana non è stata tramandata da noi, quanto più dagli italo americani, che data l’intraprendenza imprenditoriale tipica degli States hanno trasmesso al resto del mondo le loro abitudini e la loro cultura. Noi nella nostra chiusura e limitatezza d’impresa difficilmente siamo stati in grado di esprimere l’autenticità e l’originalità italiana, ad eccetto del mondo della moda e delle automobili. Pensate, le più grandi catene di pizzeria sono Pizza Hut e Domino’s, l’Italian sounding nei prodotti alimentari è un problema impossibile da debellare, non esiste una grande catena alberghiera italiana che trasmetta il nostro stile.
Attualmente qualche timido passo si inizia a vedere, pensate ad esempio ad Eataly o agli expat di alto livello che stanno portando l’Italia moderna in giro nel mondo, ma al contrario non è un caso che i cantanti italiani più apprezzati siano i ragazzi de Il Volo, che in Patria invece trovano tanti detrattori proprio per la proposta musicale antiquata. Pensate a questa discrasia come la possono vivere ogni giorno i turisti che arrivano qui, che magari si aspettano qualche cosa che poi non trovano, oppure la richiedono risultando a volte addirittura offensivi ai nostri occhi.
A mio parere uno dei compiti principali degli operatori turistici è agevolare il soggiorno dei propri clienti avendo ben presente quali possono essere le difficoltà culturali, spiegandole e volgendo a proprio favore quelle che potrebbero essere esperienze negative. Latte è una parola italiana, che da noi significa semplicemente latte. All’estero è la parola utilizzate per il Caffelatte, ma se nessuno glielo spiega a questa gente, come lo possono sapere? Ho fatto questo esempio perché tempo fa la responsabile di un T.O. specializzato in tour guidati di Roma mi disse che uno dei tour di maggior successo è quello “Coffee Experience”, cioè imparare e assaggiare tutto ciò che riguarda il mondo del Caffè in Italia, partendo dalle differenze con il resto del mondo.
Un altro esempio recente riguarda ciò che sta avvenendo in Giappone, a Kyoto per l’esattezza, città molto simile per tanti aspetti alle nostre Città d’Arte e che sta vivendo in questo momento gli effetti negativi dell’overtourism, in particolare relativamente ai comportamenti tenuti dai turisti ma considerati inaccettabili dai locals. La cultura Giapponese è notoriamente molto complessa: riservata, minimalista, silenziosa. Praticamente l’esatto contrario di molti popoli sia occidentali che asiatici. Si sta cercando di ovviare a questo problema tramite un opuscolo, chiamato akimahen, “proibito” in giapponese, consegnato direttamente nelle strutture ricettive e in cui vengono spiegati i comportamenti considerati negativi e vice versa quelli corretti da adottare.
Devo essere sincero, trovo questo flyer un po’ troppo minaccioso, ma si potrebbe utilizzare come spunto per un’infografica accattivante e ironica in cui spiegare alcuni aspetti del nostro Paese ai turisti alle prime armi. Banalmente perché ad esempio se ordinano una pizza pepperoni gli arriva una pizza ai peperoni invece che una col salame piccante. (ndr per chi non lo sapesse in Usa e nel mondo pepperoni è un tipo di salamino piccante, probabilmente derivato da quello portato dagli emigrati calabresi).
Dal lato nostro, specie di noi operatori del settore, dobbiamo iniziare a capire meglio che non possiamo pretendere che gli stranieri conoscano approfonditamente i nostri usi e costumi, che non abbiano stereotipi, che non conoscano la nostra geografia o la nostra cultura. Né che possiamo per forza imporgliela, perché ritenuta più giusta o, errore madornale, superiore. D’altronde al contrario mi chiedo quanti italiani, pur amando ad esempio la Spagna, ne conoscano le varie regioni oltre quelle principali, oppure le differenze culturali tra un Galiziano e un Navarro, o i piatti tipici dell’Extremadura rispetto a quelli Baschi, ma anche che ne conoscano la storia di tutti gli imperatori e re fino ai tempi moderni. E parliamo del paese più vicino culturalmente al nostro!
In conclusione, intendiamoci, questo articolo non ha la pretesa né di essere un trattato di antropologia del turismo né pretende di essere esaustivo sulla percezione globale che si ha dell’Italia, ma vuole essere un invito a riflettere e a mettersi nei panni di chi abbiamo di fronte nelle nostre strutture. Perché spesso anche fare una battuta inaspettata o dare l’informazione giusta al momento giusto può essere un’attività dal valore inestimabile.